Un giornalista chiese a Cocteau cosa avrebbe portato via con sé se nella sua casa fosse scoppiato un incendio; il poeta rispose: “Il fuoco”.
L’arte è un prodotto di solitudini e incomprensioni; cosa spinge i più grandi artisti di tutti i tempi a comportarsi come pellegrini perennemente in cerca del loro personale muro del pianto?
“Spesso mi viene chiesto perché dipingo sulle chiese. È perché ho bisogno di pareti, e non ne trovo altrove”, ribadiva sempre il drammaturgo francese.
Jean Cocteau nasce nel 1889 a Maisons-Laffitte, vicino Parigi; mostra fin da piccolo una grande passione per il teatro ma, a causa della sua salute cagionevole (che tuttavia non implica nessuna gobba leopardiana- astuccio di ali) è relegato a casa tutte le sere, mentre i genitori vanno ad assistere a vari spettacoli. Si intrattiene costruendo teatrini nel suo cortile. È tuttavia tra le pareti della sua stessa dimora che assiste alla sua prima tragedia: nel 1898 il padre viene ritrovato morto nel suo studio con una pistola in mano. La causa del suicidio è ignota ma Cocteau sospetterà sempre di un’omosessualità repressa. Più tardi, la sua, di omosessualità, sarà tutt’altro che repressa: per cinque anni avrà una relazione sentimentale con il poeta Raymond Radiguet, morto a soli vent’anni di tifo.
Il luogo: la clinica. Dopo quest’ultimo episodio incomincerà a fare uso di oppio e sarà costretto a sottoporsi a una cura per disintossicarsi. Un secolo prima il Torquato Tasso dei dialoghi leopardiani chiedeva al suo Genio familiare: “Che rimedio potrebbe giovare contro la noia?” e questi rispondeva: “Il sonno, l’oppio, e il dolore. E questo è il più potente di tutti; perché l’uomo mentre patisce non si annoia per niuna maniera”. Ed è proprio in una clinica a Saint-Cloud, nel 1929, che Cocteau scrive I ragazzi terribili, la sua opera di maggior successo, “nati in diciassette giorni, con errori di stile e d’ortografia che non oso correggere”, afferma. “Ormai guarito” continua “io mi sento vuoto, povero, nauseato, sofferente. Fluttuo. Fra due giorni uscirò dalla clinica. Per andare dove?”. È un quesito, questo, che si pongono in molti tra gli artisti di cui percepiamo solo la pesantezza dei libri negli zaini, lungo i tragitti battuti per raggiungere scuole e biblioteche o tra i corridoi dei nostri licei.
Ma c’è un altro aspetto -il più importante, forse- che sfugge, impalpabile ed etereo: la leggerezza di queste anime tragiche che fanno fatica ad adattarsi ad una realtà troppo bruta e selvaggia per la gentilezza delle loro sensibilità, e quindi esulano, disertano all’impegno della vita e si rifugiano in un iperuranio di inchiostro, acquarelli e note musicali.
“Cos’è la poesia?” si chiede lo scrittore parigino; “È un fluido favoloso in cui è immerso il poeta”, ed è la sua unica dimora.
Il luogo: Recanati. La prigione, il ricordo, l’ostello paterno, l’infinito sospirato oltre un orizzonte, l’amata biblioteca, la finestra di una Silvia-idea, amore, morte e immortalità attraverso i versi più celebri della letteratura italiana (e se è vero che etimologicamente il termine amore vuol dire senza morte, allora solo i poeti sono forse capaci di amare davvero perché relegano le loro muse in quell’angolo di storia che non soccomberà mai all’avanzare del tempo), ma soprattutto la fuga.
Il giudizio che Leopardi attribuisce a Recanati è spietato: “Né mi diceva il cor che l’età verde/ sarei dannato a consumare in questo/ natio borgo selvaggio, intra una gente/ zotica, vil”. E così ha inizio il pellegrinaggio leopardiano: Roma, Milano, Bologna, Firenze, Pisa, Napoli. Tornerà a Recanati una sola volta e definirà il suo soggiorno “sedici mesi di notte orribile”. La Recanati leopardiana è un po’ la Crotone degli aspiranti fuggiaschi: Giacomo è un ragazzo e si sente incompreso. Sogna di lasciare il luogo concreto per un luogo astratto che è la Roma vagheggiata, una vera e propria utopia, ma quello che trova è solo il crollo dei castelli che ha costruito in aria, la delusione per un credo tradito che rimarrà inappagato se non per un fuggevole attimo in cui troverà la serenità a Pisa. Perché quello che in realtà Leopardi cerca, e come lui la maggior parte delle persone, è un luogo a cui sentire di appartenere e dove riconoscersi ed essere riconosciuto non come alieno (dal latino alienus, che appartiene ad altri; ma a chi?) bensì come parte di un tutto, e sarà lo stesso motivo a spingere Cocteau a circondarsi di personaggi quali Picasso, Proust, Modigliani, Maria Rilke, Apollinaire. Il luogo è la proiezione visiva delle menti che lo abitano.
Entrambi i poeti tentano la fuga: Leopardi cerca di raggiungere Milano e tuttavia non vi riesce perché scoperto dal padre; Cocteau, dopo essere stato espulso da scuola e aver fallito più volte all’esame di maturità, organizza una misteriosa fuga a Marsiglia, ma questa è solo la prima delle innumerevoli tappe del suo pellegrinaggio: nel 1936 tocca Roma, Atene, Il Cairo, Bombay, Singapore, Hong-Kong, Tokyo, Honolulu, San Francisco, Hollywood e New York. D’altronde il giudizio del poeta sugli zingari era che questi fossero figli dei centauri, eredi di una tradizione mitologica da reinterpretare e adattare alla realtà presente.
Perché il luogo più abitato dagli artisti è forse il passato: i numeri tradiscono sempre i poeti, e questi nascono o in anticipo o in ritardo, la puntualità non è una loro virtù congeniale. Ed è questa una loro costante: tradire il tempo per rinnegare un luogo fatto di frontiere e limiti.
Nel contesto della Seconda guerra mondiale, Cocteau stringe amicizia con lo scultore tedesco Arno Breker, amico di Hitler, e viene aspramente criticato per questa sua imperdonabile forma di antipatriottismo, sebbene fosse in contatto anche con intellettuali della Resistenza Francese, mentre Leopardi, accusato dai suoi contemporanei di disimpegno civile, si dà addirittura ad un materialismo ateo in contrapposizione con il Romanticismo cattolico predominante, ma scrive di lui De Sanctis: “Non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l’amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto. È scettico e ti fa credente”.
E quando Shakespeare affermava che “siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni” era più vicino alla verità di quanto non credesse: ogni nostro atomo proviene dall’interno di una stella che, morendo, sprigiona ferro, calcio, cheratina e altri elementi. Abbiamo letteralmente residui astronomici nel sangue e nelle ossa. Forse i poeti nascono con una percentuale maggiore di polvere di stelle e per questo il loro legame con questo mondo è più flebile e tormentato, ma proprio da questo struggimento nasce la loro arte perché, come scriveva Hölderlin, “quello che resta è dono dei poeti”.
Articolo scritto da Gabriella Corigliano
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